Abbiamo letto un testo di Anna Maria Mori (Nata in Istria, 2005) su Trieste e il dialetto.
Nel testo trovo le seguenti informazioni:
1. A Trieste si parlano tanti dialetti o lingue, ma non l’Italiano (tendenzialmente)
2. Se si parla in italiano („in lingua“ dicono qui) è perché ti considerano ospite, straniero, forestiero (foresto)
3. Il dialetto è parlato da tutti i ceti sociali (bottegai -botteghieri-, intellettuali, politici, giornalisti, ricchi, poveri, uomini e donne)
4. Il dialetto a Trieste ha una funzione diversa rispetto ai dialetti del resto d’Italia (es. Sardegna, Calabria, Puglia). In queste regioni il dialetto riguarda il privato; a Trieste il dialetto è una scelta pubblica e politica.
5. Il dialetto è un rifugio: no all’Italiano per la storia, no alle lingue specifiche (sloveno, croato, tedesco) quindi il rifugio è il dialetto.
Come vengono descritti i triestini? Appaiono sereni, passeggiano con calma. A Trieste si incontrano i capelli grigi e gli occhi chiari. La gente è orgogliosa di tali capelli. La gente non sente le stesse radici degli altri italiani.
A Trieste si portano mocassini e loden, non lo spacco sulla gonna e i tacchi alti.
I Triestini vanno dal parrucchiere per farsi mettere a posto i capelli.
Tengono all’ordine in casa.
Perché in questa città, che è insieme provinciale e europea, potrebbe anche essere che la gente si rifugi, consapevolmente o no, nel dialetto al fine di sottrarsi alla scelta troppo vistosa, e quindi anche aggressiva, di un’unica lingua, magari quella italiana, che finirebbe con l’entrare in contrasto con tutte le altre della sua passata e presente babele linguistica.
Denn in dieser zugleich provinziellen und europäischen Stadt könnte es auch sein, dass Menschen, bewusst oder unbewusst, in den Dialekt flüchten, um der allzu auffälligen und damit auch aggressiven Wahl einer einzigen Sprache, vielleicht des Italienischen, zu entgehen, eine, die am Ende mit allen anderen in ihrem vergangenen und gegenwärtigen sprachlichen Babel in Konflikt geraten würde.
A Trieste la gente passeggia piano, calma, sembra lontana, persino indifferente rispetto alle tragedie globali che senti pesare a Roma piuttosto che a Torino o a Milano. Parla, o forse piuttosto chiacchiera come si faceva „ai bei tempi“: il cane, il bambino, le piante del giardino, la cena della sera prima, il pranzo del giorno dopo, il mare, la gita sul Carso, la raccolta dei funghi o dei tartufi.
A Trieste, a una prima occhiata certamente superficiale, la gente sembra felice, o almeno serena. Ti viene in mente di essere in un altro mondo che forse non c’è, e che i triestini si inventano di giorno in giorno. „Avevo una citta bella tra i monti / rocciosi e il mare luminoso“: sono i versi di Saba ai piedi del suo monumento in bronzo dorato, che lo ripropone piccolo com’era, più piccolo dei passanti che non si accorgono della sua presenza, con la scoppola
il bastone da passeggio e la pipa (che il cretino di turno ha rubato pochi giorni dopo l’installazione del monumento), fermo su via Dante all’incrocio con via Niccolò.
A Trieste ti vengono incontro capelli grigi e occhi chiari: tanti capelli grigi vissuti e mostrati con l’orgoglio e la sicurezza di sé di una città che ha le sue radici e i suoi riferimenti in un altrove che „non somiglia“. Non somiglia al resto d’Italia modello televisivo (…)
Nell’Italia degli spacchi
e dei tacchi a spillo
qua si portano i mocassini e il loden e gli uomini si preoccupano con serietà della piega ben stirata dei loro pantaloni.
A Triste va ancora di moda andare dal parrucchiere per farsi mettere in ordine anziché in disordine i capelli.
A Trieste, ti raccontano non ti fanno entrare in casa se appena nel salotto c’è un cuscino fuori posto.