A Trieste, che in piazza dell’Unità sotto il sole, davanti al mare, è bella da commuovere, senti parlare tutto fuorché l’italiano: si parla dialetto (soprattutto), e poi in sloveno, in croato e anche in tedesco. Parlarvi in dialetto è un segno di accoglienza: sei dei nostri. Se ti rivolgono, anche con qualche ostinazione, in italiano (ma qui diciamo „in lingua“) è per sottolineare, che sei un ospite, un estraneo, un foresto.
Perché in questa città, che è insieme provinciale e europea, potrebbe anche essere che la gente si rifugi, consapevolmente o no, nel dialetto al fine di sottrarsi alla scelta troppo vistosa, e quindi anche aggressiva, di un’unica lingua, magari quella italiana, che finirebbe con l’entrare in contrasto con tutte le altre della sua passata e presente babele linguistica.
Denn in dieser zugleich provinziellen und europäischen Stadt könnte es auch sein, dass Menschen, bewusst oder unbewusst, in den Dialekt flüchten, um der allzu auffälligen und damit auch aggressiven Wahl einer einzigen Sprache, vielleicht des Italienischen, zu entgehen, eine, die am Ende mit allen anderen in ihrem vergangenen und gegenwärtigen sprachlichen Babel in Konflikt geraten würde.